La Giustizia Tributaria in emergenza Covid e non solo
Emergenza: termine usato e abusato in più occasioni, che sta a indicare un momento di particolare criticità, per un qualsiasi sistema, tanto da porre in discussione il suo corretto funzionamento e finanche la sua stessa ragion d’essere.
Così, se la pandemia, legata al Covid19, ha determinato il sorgere di un’emergenza per la Giustizia Tributaria, uguale effetto sembrano sortire alcune sentenze, spesso di ultima istanza, che, sempre più sovente, accade di incontrare nel percorso professionale di ciascuno.
Uno di tali provvedimenti è sicuramente l’ordinanza n. 25501 del 6 ottobre 2020 (depositata il 12 novembre 2020) con la quale la Suprema Corte di Cassazione ha affermato il principio per il quale,In presenza di utili extracontabili in una società di capitali a ristretta base societaria, opera la presunzione di distribuzione occulta ai soci anche in caso di costi fiscalmente non deducibili. Secondo i Giudici tali costi sono, per loro natura, costi neutrali ai fini fiscali, con conseguente inevitabile ricaduta sulla quantificazione delle imposte dovute anche dai soci.
Orbene, se da un lato si sostiene che le sentenze si accettano, il che vale per i soggetti interessati, dall’altro è sicuramente un diritto di chi si occupa della materia giuridica, quello di commentare ed eventualmente anche criticare quei provvedimenti giurisdizionali le cui conclusioni non si ritengano condivisibili.
Nel caso in esame ciò rappresenta, più che un diritto, un dovere morale verso sé stessi e verso la comunità dei cittadini-contribuenti.
La vicenda, in verità, ha origini lontane e ha visto il lento scivolamento della giurisprudenza, dalla posizione più garantista, per la quale l’onere della prova ricadeva sull’Ufficio, chiamato a dimostrare il materiale incasso, da parte dei soci, del maggior reddito accertato nei confronti di società di capitale (ex plur. Cassaz. 14046/2009), verso quella più rigida, con l’affermarsi (ormai consolidato) della presunzione semplice, ripresa anche nell’ordinanza di cui sopra, per cui: “è da ritenere pienamente ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci di utili non contabilizzati dalla società e detta presunzione non viola la regola del divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è costituito dalla sussistenza di maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale.”
Dalla lettura di quanto sopra, si può notare come ai Giudici sia sfuggito una sorta di involontario lapsus freudiano laddove, usando la locuzione “utili non contabilizzati”, finiscono per aprire le porte alle ragioni di cui appresso.
In questa sede, tuttavia, non è in discussione la ricordata presunzione semplice, che rappresenta un principio consolidato e consono ai tempi, bensì occorre soffermarsi sulla natura dei redditi, presuntivamente attribuiti ai soci e derivanti dall’accertamento in capo alla società.
Nessun dubbio sul fatto che gli stessi costituiscano redditi di capitale di cui agli artt. 44 e ss. del TUIR n. 917/86 per i quali, ai fini della tassabilità, è richiesto il requisito del materiale incasso (art. 45).
Orbene, se consideriamo fondata la presunzione di cui sopra, con altrettanta logica dobbiamo ritenerla inapplicabile a quei redditi che, per loro stessa natura, escludono la possibilità di una materiale erogazione.
Tecnicamente bisogna dire che ci troviamo in presenza di due distinti presupposti impositivi, di cui il primo relativo ad un maggior reddito di impresa (accertato in capo alla società a ristretta base sociale e tassabile per competenza economica), mentre il secondo afferisce, come detto, a un reddito di capitale, tassabile per cassa.
Ben si comprende come, se il reddito accertato in capo alla società derivi da maggiori ricavi in nero, non contabilizzati e non dichiarati (extracontabili), difficilmente si potrà sostenere che la relativa provvista finanziaria non sia finita nelle tasche dei soci, generando così un reddito di capitale, soggetto ad autonoma tassazione, stante la sussistenza dell’ulteriore elemento richiesto, ovvero il materiale incasso.
Analogo ragionamento può farsi per eventuali costi oggettivamente inesistenti i quali, generando un maggior reddito per la società, legittimamente possono fare presumere anche la successiva, materiale distribuzione ai soci degli esborsi, sebbene contabilizzati a titolo di pagamento delle relative fatture, stante la dimostrata inesistenza oggettiva degli stessi.
Diverso è il caso di costi realmente sostenuti dalla società e ritenuti, a qualsiasi titolo, indeducibili in sede di accertamento, come avvenuto nella fattispecie oggetto dell’ordinanza in esame.
In questo caso nessuna presunzione di distribuzione potrà trovare spazio, stante la materiale assenza di qualsivoglia provvista finanziaria disponibile. Si pensi, ad esempio, a un costo relativo ad annualità pregressa, ripreso a tassazione per violazione del principio della competenza economica. La relativa fattura risulta regolarmente registrata, così come il pagamento del fornitore per cui non sussiste dubbio sul fatto che il maggior reddito accertato in capo alla società, che si ricorda essere soggetto autonomo IRES, non potrà in alcun modo formare oggetto di successiva distribuzione ai soci, con relativa, autonoma imposizione.
Identiche conclusioni possono trarsi, a titolo di esempio, nel caso di quote di ammortamento riprese a tassazione per eccesso di importo, nonché ad altre ipotesi similari che, sempre e comunque, escludono il contestuale formarsi di disponibilità finanziarie “extra contabili”.
I supremi Giudici, sempre nell’ordinanza in esame, affermano che: “la giurisprudenza di legittimità è parimenti concorde nel ritenere che non spetta all’ufficio, ma al contribuente, socio di una società a ristretta base sociale, fornire la prova che i maggiori ricavi societari non siano stati distribuiti fra i soci, ma siano stati accantonati dalla società, ovvero siano stati dalla medesima reinvestiti.”
Impostazione più che condivisibile, solamente è sfuggito al Supremo Collegio che non si tratta di maggiori ricavi (extracontabili – n.d.r.), bensì di costi regolarmente contabilizzati e solo successivamente ritenuti indeducibili, con il conseguente venir meno dei presupposti di applicabilità dell’invocata presunzione e della relativa inversione dell’onere della prova.
Evidentemente per i Giudici, il maggior reddito accertato rappresenta un qualcosa di indefinito, che può essere qualificato come “maggiori ricavi”, “utili non contabilizzati”, ovvero “costi indeducibili”, con una visione comune e grossolana del fenomeno, che trascende dal singolo presupposto impositivo, per finire nel calderone di un’unica materia imponibile, priva di qualsiasi distinzione in categorie, ciascuna soggetta a particolari regole come, al contrario, prevede il Titolo I del ricordato TUIR n. 917/86.
Non considerare i singoli presupposti impositivi e ritenere sempre e comunque applicabile la ricordata presunzione, rappresenta un grave vulnus per il futuro dei contribuenti che, persistendo tale erroneo convincimento da parte della Giurisprudenza di legittimità, si vedranno esposti alla possibilità di una doppia tassazione, su redditi giuridicamente inesistenti, perché mai percepiti.
In conclusione, così stando le cose, sarebbe oltremodo auspicabile che le SS.UU. della Cassazione provvedessero a dirimere ogni dubbio interpretativo, stabilendo in maniera chiara, che la presunzione di distribuzione opera e agisce esclusivamente nelle ipotesi di contestuale creazione di un flusso finanziario extracontabile, con conseguente possibilità di concreta distribuzione ai soci.
Ogni diversa conclusione è da ritenersi in aperto contrasto con il vigente ordinamento, senza possibilità di differente interpretazione.
Dott. Giovanni Iaccarino
(V.Presid. di Sez. presso la CTP di Napoli)
Consigliere Sindacato italiano Commercialisti